Nel 1968 l’italiano Rosa fonda un’enclave libertaria al largo di Rimini. Non c’entra con gli hippy, ma con lo Stato oppressivo. Abbattuta, in fondo non è morta. Avete presente le Liberland?
Riportiamo un articolo de “Il Foglio” scritto da di Luciano Capone.
Nell’estate del 2015 vi sarà probabilmente capitato di leggere su giornali, siti e social network la notizia della nascita di Liberland, un nuovo stato nei Balcani. La Libera repubblica di Liberland è una micronazione di circa 7 chilometri quadrati, incastonata tra Croazia e Serbia, che si adagia sulla sponda occidentale del Danubio, fondata il 13 aprile scorso da Vít Jedliãka, un libertario ceco. Quando la Jugoslavia si è frantumata e sono state ridisegnate le cartine geografiche delle nuove repubbliche balcaniche, sia la Croazia sia la Serbia hanno dimenticato di rivendicare questo lembo di terra, che è diventato “terra nullius”. Il giovane libertario boemo ha così deciso con un paio di amici di fondarci uno stato, con bandiera e motto “Vivi e lascia vivere”, un piccolo paradiso fiscale dove le tasse vengono raccolte su base volontaria attraverso campagne di crowdfunding. Jedliãka in qualità di presidente ha già nominato un paio di ambasciatori e prima dell’insediamento ha già raccolto 50 mila dollari di donazioni sul sito e oltre 400 mila richieste di cittadinanza, ma solo un decimo dei richiedenti riuscirà a diventare Liberlandiano. Sembra incredibile che dopo secoli di guerre etno-territoriali nella polveriera dei Balcani ci sia un pezzo di “terra di nessuno”, di cui nessun esercito statale o gruppo paramilitare abbia preteso il controllo. Ma per non far torto alle tradizioni, non appena qualcuno ha reclamato l’area, sono intervenute le forze militari: dopo la dichiarazione di battesimo il territorio di Liberland è stato accerchiato dalla polizia croata, che impedisce a chiunque di mettere piede sull’area a lungo dimenticata e abbandonata, compreso il “presidente” Jedliãka.
Libero orto in libero stato Un polentone ogm La storia di Liberland è l’ultima arrivata nella famiglia delle micronazioni, piccoli stati autoproclamati, mai riconosciuti, sempre al limite tra la follia e l’utopia e nati dal desiderio di autonomia, dal Regno di Talossa che aveva come territorio la camera da letto di un quattordicenne del Wisconsin alla Repubblica di Minerva fondata da un milionario di Las Vegas che aveva trasportato chiatte di sabbia su un atollo del Pacifico per portare la terra sopra il livello del mare. Isole, case e quartieri sovrani, istituiti e regolati su basi diverse da come funzionano gli stati (una panoramica completa si trova nel libro “Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni” di Graziano Graziani). Nel mondo ampio e variegato delle micronazioni, Liberland fa parte del sottoinsieme libertario, individualista e capitalista, uno dei più originali, che nella ricerca di spazi di autonomia si è spinto anche oltre la terraferma, in mare aperto. La stagione più vivace e rivoluzionaria è stata quella degli anni 60 in Gran Bretagna, con la lotta tra il governo e le radio private off-shore che, a largo delle coste inglesi, bombardavano a colpi di onde rock e pop il monopolio statale dell’etere difeso dai laburisti (quella insurrezione e quella guerra atipica ha ispirato il fortunato film di Richard Curtis “I love Radio Rock”). Uno dei principali pirati protagonisti di quella battaglia fu Oliver Smedley, un imprenditore liberale folgorato nel dopoguerra dal libro “The road to serfdom” e dalle idee di Friedrich von Hayek, che aveva già fondato negli anni 50 con Anthony Fisher l’Institute of Economic Affairs, uno dei primi think tank liberali. Smedley, che a differenza dell’amico Fisher era un uomo più di azione che di riflessione, si era messo in testa di smantellare il monopolio sulla comunicazione (e sulla pubblicità) della Bbc dalle acque internazionali con le sue radio Atlanta e radio Caroline. La repressione del governo contro le radio libere fu durissima, direttamente proporzionale al successo delle canzoni rock sparate dal mare nelle case dei giovani britannici, tanto che il Postmaster General (ministro delle Comunicazioni), il laburista Tony Benn, mise fuorilegge le emittenti private. Alcuni di questi produttori, avventurieri e dj cercano nuovi espedienti per sottrarsi al controllo politico-statale. Così il “pirata” dell’etere Paddy Roy Bates per continuare a trasmettere il rock della sua “radio Essex” decide di occupare la Roughs Tower, una fortificazione costruita durante la Seconda guerra mondiale e poi abbandonata. La piattaforma è fuori dalle acque internazionali e tanto basta a Bates per dichiararsi fuori dalla giurisdizione britannica e fondare su quei 500 metri quadrati il Principato di Sealand (nella sua rocambolesca storia Sealand ha anche subito un golpe interno e un controgolpe con un elicottero d’assalto e un esercito di mercenari che ha riportato il Principe Bates sul suo trono). Se Bates ha occupato una costruzione abbandonata, il sogno di vivere su un’Atlantide libertaria ha spinto più recentemente Patri Friedman – nipote del premio Nobel per l’economia Milton e figlio del filosofo David – a fondare il Seasteading Institute, una fondazione che ha lo scopo di costruire piattaforme nelle acque internazionali per ospitare comunità che vivano secondo gli ideali libertari, lontano dall’oppressione statale. Il progetto è ancora in alto mare, nel senso che niente di concreto è stato realizzato, ma ha già raccolto molte donazioni, tra cui 500 mila dollari da un boss della Silicon Valley come Peter Thiel, il fondatore di PayPal.
L’idea avveniristica di costruire uno stato su una piattaforma artificiale nel mare sembra un’americanata, partorita dalla mente di chi ha fatto indigestione di libri e film di fantascienza, ma in realtà è già stata concepita e realizzata circa 50 anni dal genio italiano. Ci aveva già pensato l’ingegner Giorgio Rosa, che a largo delle coste romagnole nel 1968 edificò uno stato in mezzo al mar Adriatico, l’Isola delle Rose. Di quest’isola a lungo dimenticata se n’è tornato a parlare per merito di Walter Veltroni, molti ora ne conoscono la storia per il suo romanzo “L’isola e le rose”, che racconta le vicende di un gruppo di ventenni che sogna di costruire “una piattaforma appena oltre il limite delle acque territoriali, dove accogliere una comunità di artisti, poeti, musicisti, amanti della bellezza”. In partica un’isola hippy in pieno ’68, immersa nella cultura sessantottina: i protagonisti leggono Kerouac, Ginsberg, Pasolini e Marcuse, ascoltano i Beatles e i Rolling Stones, si parla del golpe dei colonnelli, della guerra dei Sei giorni, del Vietnam e di Martin Luther King, di Kennedy e Che Guevara, della pillola e della minigonna, di piazza Fontana e dell’uomo sulla luna. In una recensione sull’Unità, Massimo D’Alema ha scritto che il libro ha “il sapore della nostalgia e ci riporta in un tempo cruciale della nostra vita personale e della nostra storia collettiva. Si ha come la sensazione che quell’incredibile storia vera abbia sfiorato la nostra esistenza, che fu segnata dagli stessi eventi, dalle stesse speranze e dagli stessi miti che fanno da sfondo alla storia dei ragazzi di Rimini protagonisti del romanzo”. E poi D’Alema ha raccontato del suo ’68 militante a Praga contro l’Armata rossa, del viaggio a Francoforte con Giulietto Chiesa all’ultimo congresso della lega degli studenti tedeschi di sinistra…
Ecco, la vera storia dell’Isola delle Rose non c’entra niente con il romanzo di Veltroni e il Sessantotto di D’Alema. Nella coincidenza temporale tra la fondazione dell’isola e il Sessantotto, c’è da dire che quello di Giorgio Rosa fu un anti-68, una secessione spazio-temporale dallo statalismo italiano e dall’avanzare delle idee collettiviste dell’epoca.
Chi è Giorgio Rosa? La domanda non a caso è la stessa che attraversa “La rivolta di Atlante”, il romanzo più famoso di Ayn Rand: “Who is John Galt?”. Intanto non è proprio il prototipo del sessantottino, ma un ex fascista con pulsioni anarco-libertarie, un tipo che dopo aver fatto il soldato a Salò è stato condannato come disertore dal un tribunale della Rsi. Come John Galt anche Rosa è un ingegnere e come l’eroe randiano vuole edificare la propria “Galt’s gulch” per sottrarsi all’oppressione dei collettivismi dell’epoca: il paternalismo della Chiesa, il maternalismo della Dc e l’anticapitalismo dei comunisti. “I preti volevano che non facessi nulla che a loro non garbasse – ha scritto l’ingegnere in memoriale redatto per una rivista inglese – I comunisti cercavano di combattere i signori e di portar via, con la terra, anche la loro ragione di esistere; solo i politici, asserviti ai russi o agli americani, avevano un futuro”. Ma cosa può fare in quell’Italia una persona che si definisce liberale, che non crede nei partiti né nelle religioni e men che meno nello stato? La cosa più naturale è andarsene in un altro paese. E invece questo John Galt bolognese – conscio che anche da altre parti avrebbe comunque trovato istituzioni capaci di soffocare la sua libertà – decide di costruirsi uno stato su misura. Per un ingegnere quotidianamente alle prese con bolli, carte e autorizzazioni, il sogno proibito è quello di costruire qualcosa liberamente, anzi, costruire una repubblica dove si può costruire liberamente. “Sulla terraferma la burocrazia era soffocante – ha raccontato – L’idea era di sfruttare il turismo e vendere benzina senza le accise, aprire un bar e un ufficio postale, emettere francobolli. Sarebbero sorte altre iniziative, sull’esempio di altri micropaesi indipendenti, come San Marino. La cosa avrebbe retto: dove c’è libertà c’è ricchezza”. Quell’idea folle inizia a concretizzarsi a fine anni 50, quando Rosa deposita il brevetto industriale di un “sistema di costruzione di isole in acciaio e cemento armato per scopi industriali e civili”, lo scheletro di quella che sarà la sua futuristica palafitta che sorgerà 11 chilometri e mezzo a largo delle coste riminesi, circa 500 metri oltre le 6 miglia nautiche che all’epoca erano il limite delle acque territoriali. Prima di impalare il suo stato off-shore, l’ingegner Rosa consulta procuratori, magistrati ed esperti di diritto internazionale che gli confermano che oltre quel limite gli stati non hanno giurisdizione. Rosa ci mette una decina d’anni a costruire la sua “isola delle Rose”, spendendo centinaia di milioni di tasca sua e subendo diverse battute d’arresto a causa di mareggiate che travolgono la struttura. Nessuno si interessa ai lavori di quel bizzarro ingegnere, ma appena l’opera inizia a prendere forma iniziano gli attenzionamenti delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Quando nel 1967 l’isola è terminata e viene aperta al pubblico, Rosa capisce che deve dichiarare l’indipendenza, da un lato per marcare le distanze rispetto allo stato italiano (sempre più minaccioso) e dall’altro perché “c’era la possibilità di poter avere il carburante senza gli oneri del governo. Puntavamo molto sul turismo, dovevamo essere una zona franca”. Così il 1° maggio 1968, data casuale e senza connotati politici nelle intenzioni del fondatore, su quella piattaforma di 400 metri quadrati nasce, dal suo nome, la Repubblica dell’isola delle Rose, o meglio, la Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, perché l’ingegnare per farsi pubblicità sceglie come lingua ufficiale l’Esperanto, allora molto in voga (e infatti il nome ufficiale dello stato è Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj).
Il momento più bello nei suoi ricordi è il pranzo d’indipendenza con gli amici con cui condivide l’impresa, ma ne seguono altri. In quell’estate del 1968 l’isola diventa un’attrazione turistica, le navi che solcano l’Adriatico disegnano le rotte in modo da passare vicino al nuovo stato, tante persone lasciano la costa per visitare quell’isola di acciaio su cui c’erano un bar-ristorante e un ufficio postale che emetteva francobolli. L’ingegnere aveva altri ambiziosi progetti, voleva allungare l’isola per far nascere un aeroporto in mezzo al mare, alzarla di qualche piano per aprire negozi di souvenir. Ma quel paradiso fiscale a pochi chilometri dalla costa non piaceva alle istituzioni. Un avamposto di libertà in mezzo all’Adriatico non poteva durare in un mondo allora diviso in blocchi, dove si costruivano muri totalitari più che isole libertarie.
Come su John Galt nelle pagine della Rand, così sull’ingegnere iniziano a girare un po’ di leggende. Chi è Giorgio Rosa? Cos’è questa Repubblica delle Rose? Ognuno scarica le proprie fobie: per i democristiani ci sono casinò e night club, per i comunisti si tratta di una manovra destabilizzante dello stalinista ed ex-amico Henver Hoxha, per i fascisti è una base sovietica, per altri una radio pirata o una televisione abusiva. Per tutti è da buttare giù, anche se Rosa stampa solo francobolli e vende souvenir. Nonostante la solidarietà proveniente da tante parti del mondo, di turisti e commercianti riminesi, l’indipendenza della Repubblica dell’isola delle Rose dura solo 55 giorni: a fine giugno il governo invia una task force di carabinieri che circonda l’isola e la occupa (la vicenda è oggetto della 3 emissione di francobolli, su cui compare la dicitura “Milita Itala Okupado”, che in italiano vuol dire “Occupazione militare italiana”). “Capii definitivamente che in Italia è impossibile essere liberi, far le cose da solo”, disse in un’intervista al Corriere della Sera.
Rosa prova a resistere per via giudiziaria, ma lo stato decreta l’abbattimento di una costruzione nata in un’area su cui non ha giurisdizione: l’11 febbraio 1969 i sommozzatori della marina militare minano la struttura con 1.000 chili di esplosivo, 75 per ogni palo. L’isola delle Rose regge, e resiste in parte anche la seconda volta, quando di esplosivo ne viene caricato quasi il doppio. Pochi giorni dopo sarà una burrasca a portarsi definitivamente via quel che resta della struttura: l’Italia vince la sua “guerra delle Rose”. “L’unica guerra vinta dall’Italia! Abbiamo fatto figure da cioccolatai in tutta la storia, in Grecia, in Albania. E però con me ce l’hanno fatta!”, ha detto Rosa con amara ironia in un’intervista di qualche anno fa a Rivista Studio.
L’ultimo atto ufficiale della Repubblica dell’isola delle Rose fu l’emissione in esilio di una serie di francobolli che rappresenta l’esplosione dell’isola con la scritta latina “Hostium rabies diruit opus non ideam”: “La violenza del nemico distrusse l’opera, non l’idea”. L’isola delle Rose è stata affondata, ma il sogno randiano di Giorgio Rosa di una fondare una repubblica libertaria è vivo in Liberland e soprattutto nel Seasteading Institute, nei progetti di Patri Friedman e Peter Thiel di costruire nell’oceano aperto piattaforme mobili indipendenti dallo stato.
di Luciano Capone
fonte notizia
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